Tre settimane a Chios con il CESRT – 2019

“Provate sempre a riparare il mondo”

di Silvana Sgarioto

CHIOS VIAL giochi

“8076 people arrived to Chios in 2019! And we responded to 99% of them!” Così Toula  nel gruppo di WA del Chios Eastern Shore Response Team (Cesrt) nell’ultimo giorno dell’anno riassume con soddisfazione i risultati del nostro lavoro, che ha come obiettivo principale proprio l’accoglienza dei migranti quando toccano terra (landing).

Una parte rilevante del lavoro dei volontari serve a preparare questo primo contatto con grande cura e attenzione a ogni minimo dettaglio nel luogo (warehouse), dove ogni mattina ci ritroviamo alle 8,30 in cerchio, davanti a una lavagnetta e al volontario di turno che assegna i compiti.
Prima di tutto viene la formazione della squadra di sei persone on call più una coppia di riserva, disponibili per 24 ore ad accogliere, con acqua, viveri, vestiti, giacche, coperte, i migranti che sbarcano.
Nell’ ultima settimana dell’anno cade il quarto compleanno del Cesrt  divenuto ong,  all’interno della compagine di Offene Arme e.V. Ma la fondatrice o, come più umilmente si definisce, la volontaria permanente è lei, Toula Kitromiliti, proprietaria del Sun rooms, una decina di studios a Megas Limnionas; il primo response team è nato nell’autunno del 2015 con i suoi ospiti invitati da lei a soccorrere con vestiti asciutti, cibo e bevande calde i rifugiati sbarcati nella spiaggia vicina.

 

Yvonne era una delle ospiti e torna ogni anno a ripetere, in un contesto sempre più organizzato, quel gesto spontaneo e necessario. In quell’anno, il 2015, a Chios sono arrivati 113.000 rifugiati e richiedenti asilo, una media di 700 al giorno (l’isola ha poco più di 56.000 abitanti).  Dal 18 marzo 2016, quando la Ue ha firmato il famigerato accordo con la Turchia per fermare il flusso, chi arriva resta intrappolato negli hotspot, che sono stati allestiti nelle cinque isole più vicine alla costa della Turchia: Lesbo, Chios, Samos, Leros, Kos. Prima del trattato, dopo l’identificazione, i richiedenti asilo potevano essere trasferiti nella terraferma, dalla primavera del 2016 restano incagliati nel fango delle jungle sorte attorno agli hotspot di Vial (Chios), Vathi (Samos), Moria (Lesbo) perché il processo di riconoscimento dello status di rifugiato richiede da 8 mesi a due anni. A Leros l’hotspot  ha sede a Lepida nell’area dell’ex ospedale psichiatrico, chiuso nel 1995, strutture fatiscenti, containers per i più fortunati e tende per gli altri. Non l’ho mai visto, ma lo conosco come un vero inferno dove nel dopoguerra si portavano i matti incurabili e, dopo il colpo di stato dei colonnelli, gli oppositori politici: militanti, intellettuali, poeti. Tutti insieme, matti e comunisti. Lo racconta Simona Vinci nel suo bellissimo romanzo La prima verità.

Il campo di Vial invece l’ho visto. O meglio la jungle intorno al campo, perché dentro il campo i volontari del Cesrt non possono entrare.

   

Medici e infermiere di Salvamento Marittimo Humanitario (SMH) invece entrano e coprono il turno dalle 16 alle 22, non garantito dalla direzione dell’hotspot che mette a disposizione un solo medico militare, presente dal mattino fino alle 16. Un medico per oltre 5000 persone.

Giuseppina  Branca, una nostra amica, è una delle infermiere che è arrivata dopo natale a fare la volontaria per un mese.Se abbiamo deciso di fuggire dal natale milanese e passare tre settimane a Chios è perché lei ci ha fatto conoscere SMH e Cesrt e ci ha convinto che avremmo potuto dare una mano, anche se non sappiamo bene l’inglese e non ci sentiamo capaci di far niente.


Andiamo a trovarla nella villetta vicino a Chios dove vive con i tre medici di SMH e Michal, un’infermiera/ostetrica israeliana. Uno dei tre medici è un dentista. Giuseppina ci racconta delle lunghe file di pazienti che ogni giorno si formano davanti all’ambulatorio, controllate dalla polizia. SMH fornisce all’ambulatorio anche le medicine.

Il 30 è nato Mohammed, non c’è stato tempo di portare la sua giovanissima mamma in ospedale.
Sofia, amica di Toula e volontaria di lunga data del Cesrt , è andata a trovarli quando sono stati trasferiti in ospedale e ha regalato una culla portatile con il corredino per il piccolo e altri generi di prima necessità alla mamma.  E il giorno dopo è nato un altro bimbo in ospedale e è ritornata con un’altra culla. Ce n’è sempre una pronta al Cesrt. Le due neomamme con i loro bambini vengono poi sistemate negli appartamenti che l’Unhcr  prende in affitto per i rifugiati e richiedenti asilo considerati vulnerabili.

In genere si trovano lontano dalla città  e da Vial. Le donne, come tutti gli altri richiedenti asilo, continueranno a  ricevere il pocket money giornaliero di 3 euro ma non hanno più diritto ai tre pasti, che vengono distribuiti al campo. Proprio per provvedere a loro è nata Chio’s People Kitchen, una cucina popolare fondata da Kostas Tanainas, oggi autogestita da un team di rifugiati che cucinano e distribuiscono pasti vegani a chi ha più bisogno, ma anche ai volontari che aiutano i rifugiati, come il Cesrt e la casa delle donne (finché è stata aperta).
https://newmatilda.com/2019/11/30/the-last-volunteers-on-an-island-paradise/

Vial è a una decina di chilometri dalla città di Chios, vicino al villaggio di Chalkios, nell’area di una fabbrica di alluminio chiusa ormai da molti anni. Non c’è nessun mezzo pubblico che lo colleghi alla città; unica possibilità per muoversi i taxi che stazionano proprio di fronte all’entrata; per Chios la tariffa è 10 euro per l’andata e 10 per il ritorno.

Durante uno dei cleaning del campo cioè raccolta della spazzatura , organizzato dal Cesrt tre volte la settimana,  abbiamo visto le confezioni quasi integre dei vassoi di pasta o purè e fagiolini finiti nel pattume disseminato nel campo che la squadra raccoglie nei sacchi neri e trasporta nei punti di raccolta. “No good, don’t like” mi risponde un ragazzo, probabilmente somalo, quando gli chiedo perché stia buttando quattro confezioni impilate una sull’altra. Non abbiamo capito come mai non vengano distribuiti i sacchi neri alle famiglie. Perché la raccolta dei rifiuti sia così mal organizzata.
Sofia ci dice che è una vera emergenza, tre mesi fa la jungle non c’era e il governo greco è lento nel prendere decisioni. Anche Giovanna, che è venuta ad agosto a Chios con Stay Human, conferma: “Dove quest’estate facevamo lezione [di inglese alle donne] con Harvey, un’attivista americana, ora ci sono le tende”. Ma perché non smettono di distribuire cibo tanto cattivo? Nessuno controlla? Chi ha avuto l’appalto? E qui la risposta arriva da diverse fonti: il fratello del direttore  del campo, che, a sua volta, è gestito dalle forze armate che vi esercitano una piena giurisdizione.
Quando i landing a causa delle cattive condizioni meteo si sono diradati, i cleaning si sono intensificati, grazie anche alla presenza di molti volontari.  Nell’ultima settimana eravamo vicini alla trentina. Ci sono state molte partenze e molti nuovi arrivi.

Mi sono presa la briga di contare tutti i volontari che ho conosciuto in tre settimane dall’11 dicembre al 2 gennaio: 45 provenienti da 15 paesi diversi. Provo a chiamarli per nome uno per uno, non in ordine di apparizione ma in ordine alfabetico raggruppati per nazionalità: Thanos e Thomais sono greci (e Toula, cominciano tutti con la T!); Alexandra, Beth, Claire, George, Jake, Kirsty, Lily, Mark, Owen, Mariusz (polacco immigrato in Scozia)

Sarah dal Regno unito (con una prevalenza di scozzesi); Ben dall’Irlanda; Lotta e Ulla dalla Finlandia sono arrivate separatamente in due momenti diversi; Birte e Laura dalla Germania; Marie e Rose dalla Francia; Yvonne dall’Olanda; Arnau dalla Spagna;

Bruno, Celestino, Chiara, Giovanna, Luigi, Marilena, Manuela, Roberto, Silvana, Sofia, Vittoria dall’Italia, più Lars che è scandinavo ma vive in Lussemburgo con Vittoria; Arnon, Iam, Noam da Israele; Alison 1 e Alison 2, Beth , Jane dagli Usa; Michelle e Nicole sono australiane ma vivono in Europa, a Londra la prima, in Spagna la seconda; Cassiene neozelandese è vera cittadina del mondo (ha vissuto due anni anche in Italia). Laura è una psicologa del Canton Ticino, si è fermata solo una settimana col compito di raccogliere informazioni utili per mettere a punto un progetto di aiuto nel campo sanitario per conto dell’associazione di cui fa parte.
Difficile incasellare nelle appartenenze nazionali tutte queste persone, ma è ancora un indicatore significativo il luogo in cui sei nato?  Qui ai confini più orientali dell’Europa, le patrie di provenienza mostrano ancora di più l’inconsistenza dell’origine per definire le persone. Se non fosse per i diritti collegati al luogo dove casualmente si nasce. Noi volontari apparteniamo tutti a quell’ Occidente che ci permette libertà di movimento, con i nostri passaporti possiamo andare dove ci pare; loro, prigionieri degli hotspot, siriani, afgani, palestinesi, somali e altre decine di nazionalità diverse, sono privati di questo diritto.

Se guardiamo poi all’ appartenenza generazionale i “diversamente giovani”, la fascia tra i 50 e i 75 non copre neanche un terzo del totale; i 18-40 enni, con una prevalenza dei 20-30 enni, sono i due terzi del totale. Come le donne decisamente maggioritarie rispetto agli uomini, non solo nel gruppo di cui abbiamo fatto parte ma anche nelle statistiche annuali: nel 2018 dei 939 volontari che sono venuti una volta, 618 sono donne e 310 uomini.

La direzione, o come si definiscono, gli Alpha, i coordinatori,  quelli che si assumono le maggiori responsabilità e prendono decisioni, sono due donne (Laura e Kirsty) e un uomo (Ben): è una rappresentanza perfetta.  Vivono nelle stanze sopra il warehouse, sono praticamente sempre on call, lavorano tanto, ma non sembrano tesi né nervosi, mantengono una calma ammirevole anche in situazioni oggettivamente ansiogene, sono sorridenti, leggeri, pieni di grazia giovanile. La meglio gioventù d’Europa.

Per dare un’idea del cleaning, dagli appunti di Giovanna “Tira vento. Al campo tanti cumuli di spazzatura, non finisce mai. Siamo entrati nella jungle e pulito intorno alle tende. Molti collaborano, altri ci guardano. I bambini ci vengono dietro. Tantissimi sacconi neri. L’altra volta 750, questa volta non so. Ma c’è monnezza ovunque. Seimila persone. Acqua solo in bottiglia al campo. Per bere, per lavarsi, per qualsiasi cosa. Ho visto una donna alimentare il fuoco con bottiglie di plastica. Ho visto Iam, il nostro compagno israeliano, chiacchierare e scherzare con rifugiati di Gaza. My friend, thank you, my friend. Hai l’impressione di fare tanto, ma poi alzi la testa e ti prende lo sconforto. È impossibile riuscire a pulire tutto”.

Due volte la settimana andiamo a giocare con i bambini in un campo di calcio nella jungle a ridosso dell’hotspot (il posto è riconoscibile in una foto pubblicata da “Il Sole 24 ore”, il 23 dicembre, l’ho trovata navigando nel web in cerca di risposte). Giovanna così scrive della sua prima volta al Vial game il 27 dicembre 2019: “Una distesa di fango. Noi con galosce e copri-pantaloni. Loro scalzi e in ciabatte, vestiti leggeri, uno in  mutande. Abbiamo fatto dei giochi, delle canzoni, nella fanga; sono sporchi. Sono fantastici, belli, occhi neri neri, sorridono, ridono, ti prendono per mano, batti il cinque. Si mettono in fila per un bicchiere d’acqua, un po’ la bevono, poi ci si lavano il viso, uno cerca di togliersi il fango dai vestiti”.

Quando ci vedono i bambini ci chiamano Alì Babà, come i gemelli Vorrias, Antonis e Michaelis, isolani solidali che, fazzoletto da pirata in testa, vengono a Vial a giocare con i bambini, d’estate li portano al mare. La loro associazione, Feox, formata da volontari indipendenti, organizza distribuzioni mirate di tende, vestiti, coperte. https://www.rivistailmulino.it/news/newsitem/index/Item/News:NEWS_ITEM:4888

Un’altra attività ben organizzata dal Cesrt è il Language Center, una piccola casina circondata da un terreno coltivabile, dove oltre alle lezioni di inglese tenute da un gruppo di insegnanti madrelingua, si può fare gardening e workshop di arte.

Ci si arriva a piedi in 20 minuti da Vial, ma gli studenti sono tutti maschi. Arrivano dall’Iran, dalla Somalia, dallo Yemen, dall’Iraq, dalla Palestina. Nessuna donna. Fino a qualche mese fa funzionava l’ Athena center for women, dove le donne del campo potevano andare a fare scuola di lingue, yoga, laboratori di arte e trovavano assistenza legale e gruppi sulla salute riproduttiva e supporto psicologico. Ha chiuso, mi dicono. Per mancanza di fondi, sembra. Non trovo altre informazioni nel web. Deve essere accaduto dopo l’estate: nell’intervista a Kostas del novembre 2019 c’è un riferimento alla chiusura del centro.

Il Cesrt collabora con altre Ong , come per esempio “One family, no border”, fondata dalla famiglia famiglia Hoff, che non vive a Chios, ma arriva dalla Norvegia in furgone circa tre volte all’anno per distribuire giacconi, maglioni, tende, asciugamani, lampade solari e tutto ciò di cui le persone hanno bisogno dentro e fuori il campo. In tutte le loro attività la famiglia si avvale della collaborazione di un gruppo di giovani richiedenti asilo, che gli Hoff chiamano i loro “volontari”.

Giovanna (con Roberto, Manuela, Vittoria e Lars), in una  domenica lasciata libera dal Cesrt, ha partecipato a una di queste distribuzioni: “Siamo in 17 persone, tre associazioni coinvolte, anzi quattro considerando anche noi, [Chios people Warehouse; Refugees Biriyani; One family, no border] e gli angeli-eroi, i ragazzi  rifugiati che vivono fuori dal campo, nella città di Chios.

  

  

Carichiamo tre furgoni di pacchi di vestiti da donna divisi per tipologia e taglia, giacche, maglioncini, pantaloni. Poi guanti, scarpe, cappelli, mutande. Le mutande nuove, il resto  usato.Con le macchine ci spostiamo e ci posizioniamo in prossimità del campo, su una strada sterrata poco lontana. La distribuzione sotto la vista di tutto il campo sarebbe ingestibile. Tutto è pensato nei minimi dettagli. A ognuno di noi viene assegnato un ruolo. Io sono una follower. Devo seguire e accompagnare le donne una per una ai sacchi dei vestiti. Possono scegliere una giacca, un maglioncino, un pantalone e poi due pezzi tra guanti, sciarpe, cappelli e mutande. Le donne sono in fila con un bigliettino, devono registrarsi al Pc con i loro preziosissimi fogli, che valgono come documenti di identità e poi li ripongono in buste di plastica: 183 persone, 4 ore. Siamo esausti, fa freddo e tira vento. La maggior parte delle donne sono in ciabatte o indossano scarpe molto sporche di fango. Vogliono anche i cartoni vuoti, se li litigano, si crea un po’ di tensione. Gli angeli eroi fanno da mediatori, spiegano in arabo e in farsi, mandano via gli uomini. Rimettiamo in auto quanto rimane e andiamo a scaldarci e a rifocillarci tutti insieme in un locale caldo e accogliente, pieno di famiglie greche, cibo in abbondanza, porzioni enormi per tutti”.

Dei minori non accompagnati si occupa Metadrasi, una Ong, nata nel 2009, che riceve finanziamenti europei; la sua fondatrice e presidente è Lora Pappa, che è stata premiata nel 2015 dal Consiglio d’Europa con il North-South prize per la sua attività (a Lesbo, Chios, Samos, Leros, Kos, Rodi, Kalimnos, Orestiada, Idomenei), mentre nel 2019 ha ricevuto il Conrad N. Hilton humanitarian price per l’attività di formazione di interpreti e mediatori culturali nei campi profughi della Grecia:
nel discorso di ringraziamento chiede al pubblico di applaudire i suoi collaboratori, che per il 40 per cento provengono dai campi.

Giovanna, che è già venuta a Chios con la carovana di Stay Human nella settimana di ferragosto, ha passato una giornata con un gruppo di minori non accompagnati ospitati in un appartamento di Chios da Metadrasi: “ Ci sono 15 ragazzini di 13-17 anni. Tutti maschi e due femmine. Piuttosto scalmanati e maneschi tra di loro, ma alla fine molto carini quando inizi a conoscerli. Il pranzo è stato un po’ un caos perché non avevo ben capito come funzionava e si è svolto anarchicamente nel senso che ognuno s’è preso un piatto di “maccaroni” e se n’è andato. Sono arrivati all’improvviso affamati come belve e ci hanno sopraffatto. Certo la struttura non aiuta, c’è una stanza piccola per mangiare e tutti seduti non ci stanno. Poi il pomeriggio siamo andati al mare, accompagnati in pulmino dalla responsabile.  A cena , si sono docciati e ripuliti tutti, si sono grosso modo seduti a tavola. Siamo riusciti a fare una tavolata un po’ più composta.  Ieri sera poi col karaoke hanno cantato la stessa canzone duemila volte: yalili. Si sono divertiti. Anche al mare erano contenti. Almeno uno ha dei segni di violenza sul corpo un dito amputato e altre ferite sulla gamba”.

E i landing? Non molti in queste tre settimane a causa delle condizioni meteo: pioggia nelle prime settimane, vento siberiano nell’ultima. Ne ho contati sette/otto. Pochi di giorno, la maggior parte di notte. Spesso è la guardia costiera che intercetta i rifugiati e li porta direttamente nel porto. Nel mio primo landing una famiglia curda che ho poi incontrato a Vial, durante il cleaning con grande emozione mia e loro. In tutti i landing sono presenti i medici di SMH.

Il 28 dicembre di mattina approda a Karfas un canotto con 27 persone:  16 uomini, 5 bambini e 6 donne, una di loro in uno stato avanzato di gravidanza. Vengono da Siria, Senegal, Palestina, Nigeria, Camerun. Chiara mi racconta che quando finisce la distribuzione di cibo, vestiti, giacche e coperte e di soft toy per i piccoli e la polizia carica tutti su un furgone, i volontari si guardano e scoppiano a piangere. In questo caso si deve anche portare via il gommone. Entra in azione un’altra squadra, Giovanna si offre volontaria: “in quattro siamo andati a ripulire i ‘resti’ dello sbarco. Il gommone era in mare sotto gli scogli. Era pieno d’acqua e pesante.

Con i taglierini abbiamo fatto degli squarci per far uscire l’acqua e piano piano siamo riusciti a trascinarlo sugli scogli. L’abbiamo fatto in tre parti, caricato su due auto e portato in magazzino”. I pezzi del canotto vengono poi riciclati da una organizzazione tedesca, Mimyrci.

 

Sono tornata da dieci giorni ormai, ma una parte di me è ancora a Chios. Sabato 11 gennaio naufragio al largo di Cesme, 11 morti tra cui 8 bambini, la notizia mi arriva da Toula nella chat Out of Chios.  Sembra che il governo voglia chiudere Vial e aprire un vero e proprio campo di detenzione a nord-ovest nei pressi di Volissos. Con il nuovo governo non esiste più neanche il Ministero delle politiche migratorie, il capo del governo, Mitsotakis, non parla più di rifugiati ma di migranti. Mentre scrivo (14 gennaio) apprendo che ci sono state dimostrazioni contro il ministro del lavoro Notis Mitarakis, venuto a presentare il piano per il trasloco di Vial entro febbraio. A Chalkios, il villaggio di 350 abitanti vicino a Vial, saranno forse contenti di questa decisione, più volte hanno manifestato contro il degrado. D’altra parte è scaduta già da un anno la concessione dell’area da parte del comune di Chios alle Forze armate ed era stata intentata addirittura una causa contro il governo greco.

Le aree di accoglienza quattro anni fa erano Souda e Dipethe nel centro cittadino, alle spalle del palazzo comunale; Vial funzionava solo come centro di registrazione. Tra il marzo e l’aprile 2016, quando hanno cominciato a dispiegarsi gli effetti del trattato, si sono verificate tensioni nei centri; alcuni rifugiati chiedevano il rilascio dei documenti per continuare il viaggio e consideravano la residenza forzosa un sopruso. Alcuni di loro hanno occupato il porto. All’inizio di giugno 2016 è iniziato uno sciopero della fame e è stato appiccato il fuoco alle strutture del campo di Souda: queste le notizie che trovo nel numero del 22 giugno 2016 di “Osservatorio Balcani e Caucaso”. Nel novembre dello stesso anno a lanciare bottiglie molotov, petardi e sassi contro le tende di Souda sono stati quelli di Alba Dorata, in visita a Chios con militanti di estrema destra belga.  All’inizio dell’anno successivo Souda è stato sgomberato, uomini, donne, bambini nascosti alla vista di turisti e isolani a Vial. Out of sight, out of right.

http://www.balcanicaucaso.org/Dossier/Migrazioni-la-rotta-balcanica

In questi tre anni molte sono state le denunce delle ong e dei volontari indipendenti sulle condizioni di vita insostenibili dell’hotspot, un vero “inferno vivente”;  Medici Senza Frontiere ha accusato le autorità greche ed europee di negligenza deliberata e alla fine di novembre (2019) ha presentato una lettera aperta ai leader europei: devono assumersi  la responsabilità di fornire assistenza e protezione alle persone bloccate sulle isole greche e porre fine alle politiche di contenimento per evitare sofferenze non necessarie

https://newmatilda.com/2019/10/15/a-living-hell-in-a-piece-of-paradise-life-inside-the-vial-refugee-camp/

 

http://meltingpot.org/Grecia-Lettera-di-MSF-ai-leader-europei-

https://www.infomigrants.net/en/post/13839/chios-no-future-on-a-prosperous-greek-island

Se neanche le denunce di Dunja Mijatović, commissaria europea per i diritti umani nel Consiglio d’Europa, dopo la sua visita agli hotspot delle isole egee nell’ottobre del 2019, riescono a liberare dal confino nei campi sovraffollati le persone, nella maggior parte donne e bambini, colpevoli solo di fuggire dalla guerra,  cosa può mai la nostra testimonianza?

Credo che a Chios la presenza di tanti volontari di associazioni e ong nate dall’iniziativa di isolani solidali o da altri attori sia importante  per i rifugiati e richiedenti asilo non solo per l’aiuto materiale, ma perché possono essere visti da altri occhi che non siano quelli della polizia che presidia il campo  e visitati da medici e infermieri indipendenti. Isolamento viene da isola e in un’isola ai confini orientali dell’Europa forse la percezione dell’abbandono è ancora più forte.  Se una donna, dopo aver concluso il suo lavoro volontario al Cesrt, decide di prendere casa vicino al campo di Vial e continuare a lavorare autonomamente per i rifugiati, non limitandosi solo alla denuncia, vuol dire che si tratta di un’esperienza formativa che ti cambia in profondità. Katja Weber ha i capelli blu/verdi, qualche piercing e tatuaggi sulle braccia. La sua radicalità colpisce e insospettisce: come fa a mantenersi? È ricca? È innamorata di Abdullah? La si vede sempre in giro con lui. E se Katja avesse risposto con questa sua scelta di vita a una delle domande che Alexander Langer si poneva riguardo al volontariato? “Passeresti il tuo tempo con coloro ai quali rivolgi la tua solidarietà?”

Le altre trovate sul computer di Langer e datate al 4 marzo 1990, dunque rivolte a se stesso e a nessun altro: “Cambiare il mondo o salvaguardarlo? Solidarietà come autocompiacimento? Negare se stessi  –  credibile o pericoloso (disumano, burocratico, ipocrita)? Vivresti effettivamente come sostieni si dovrebbe vivere? “.  Penso che sia una buona scaletta per una riflessione sulla nostra esperienza di volontari.

Un verbo per definire quello che abbiamo fatto in queste tre settimane  (e gli altri volontari continuano a fare) e che mi pare corrispondere bene ai nostri gesti e alle nostre azioni quotidiane è riparare, fare rammendi che fanno bene alla nostra anima prima che agli altri, di noi che non vogliamo essere anime belle. È un verbo che mi riporta ancora ad Alex Langer (“Provate sempre a riparare il mondo”) umile ed ecologico; evoca cura, tempo, concentrazione, ascolto. Lo usa anche Carla Melazzini nelle sue memorie di maestra di strada di ragazzi difficili nei quartieri periferici di Napoli, un libro che, per me che ho fatto l’insegnante per 35 anni, è risultato straordinariamente formativo perché dalla sua lettura sono uscita inquieta e cambiata.  Esattamente come da queste tre settimane a Chios.